Vita e opere del pittore Furio Cavallini
 

Cecina. L’appartamento dei coniugi Cavallini, Furio e Deanna, è  al piano terreno di una palazzina bianca con venature azzurre, come altre in fila lungo la strada leggermente in discesa verso il mare. Edilizia precaria e piena di luce delle borgate marine decollate, in Etruria, negli anni Sessanta del ‘miracolo economico italiano’ coté tourisme [“…sento dire che la nostra costa, specialmente da Follonica in giù, la stanno sputtanando, e la riempiono di svedesi, svizzeri e milanesi, tutta gente brutta e livida”. Milano, 22 dicembre 1962, lettera di Luciano Bianciardi a Cavallini].

Cecina e le grandi pinete lungo il mare delle bonifiche lorenesi, per decine e decine di chilometri, sino a Piombino e poi ancora a sud sino a Grosseto. Cecina bianca sul mare come un miraggio, alla foce del fiume da cui prende nome, alla fine della valle che dalle Balze di Volterra - epicentro dell’Etruria - scende al mare, per l’Alta Maremma dei borghi di Riparbella, Guardistallo, Montescudaio… [“Maremmano, veniva su da Piombino, e in quella città di tecnocrati e di venditori di fumo stava veramente male: forse lui e Milano non si sono mai capiti. E allora si fu contenti quando il Furio decise di tornarsene in Toscana, dove ancora regge un poco di civiltà, non soltanto artistica ma anche morale”, 1968, presentazione di Luciano Bianciardi alla personale del museo di Milano di via S.Andrea]. Riparbella, entroterra collinare tra Cecina e Volterra. Appennino etrusco e Granducato di Toscana. La favola di Furio comincia qui, in questo paesino [«noi si diceva Riparbella, non si sapeva di Alta Maremma»]. Riparbella costruita su un crinale di tufo, nella parte pisana della Valle con il fiume Cecina che divide le province. [“…Il pendio erboso era madido di luce. Era come se una mano invisibile lo avesse inondato di un liquido prezioso. Le ombre sghembe della capanna e delle piante che il taglio aveva rispettato risaltavano nere come l’inchiostro. Nel crinale di fronte ciascun albero spiccava isolato, sì che sarebbe stato possibile contarli, almeno fino a un certo punto, oltre il quale impiccolivano, venendo a formare una linea continua (…) La mattina dopo cominciò il taglio della macchia… Uno sperimentato taglialegna fa infatti presto con la roncola a liberare il terreno dagli arbusti. L’ostacolo dei rovi l’avrebbero trovato solo più in basso”, Carlo Cassola, Il taglio del bosco]. Cassola volterrano per parte di madre nasce nel 1917, Bianciardi grossetano nel 1922. Sono gli scrittori - maggiori negli anni - che tracciano il territorio visivo e si direbbe ‘morale’ della pittura di Furio Cavallini. Cassola mette sulla pagina la sua terra, Bianciardi il disagio esistenziale, la furia contro il mondo. «Sono nato a Piombino nel 29. Mio padre era nativo di Riparbella, un ex-boscaiolo passato all’industria a Piombino. Con la guerra, siamo sfollati al suo paese nativo. Lì ho passato la mia adolescenza, la formazione del mio sguardo, la mia educazione sessuale».

Il padre. La madre

In un testo sulla pittura di Cavallini è scritto che le giacche che egli dipinge ossessivamente sono il padre (appese alla sedia, con il tascapane di traverso, ripiegate nella stoffa o incombenti, come colonne doriche). La giacca è la presenza del padre, la sua irruzione sulla scena: una stanza di cui si vede solo l’impiantito. L’indumento virile è il fisico fantasma del padre. La giacca è la vestizione che celebra il passaggio dalla adolescenza alla virilità, all’età del lavoro. La giacca passa da padre a figlio come una investitura, indumento per una occasione come nella fotografia dei primi anni Trenta del padre, di Furio bambino, della madre. «Mio padre si chiamava Giuseppe. Era operaio, emigrato aveva lavorato nei cantieri di Danzica in un silurificio. Lì aveva conosciuto tanti marinai dei sommergibili. C’è la guerra e capisce - “Vado a pigliare l’ascia e torno a fare il boscaiolo” -. L’accetta di mio padre ce l’ho ancora, in studio, l’ho dipinta. Avevo un buon rapporto con lui, anche amichevole, ma era severo sul lavoro. Un grande lavoratore, sempre arrabbiato con il mondo, era contro il fascismo. Lo sentivo parlare con qualche compagno di lavoro, sempre arrabbiato. Il fratello del babbo era un Ardito del popolo, Benizio, nome strano, aveva qualche anno più di lui. Quando il babbo ne parlava ne faceva un romanzo, sempre in rapporto con il fascismo. Non aveva la tessera del fascio e il mio zio-nonno Angiolino che parlava male, non pronunciava la ‘r’, diceva a mio padre “sei stupido perché non la prendi la tesseva?”, avrai dei guai. Però c’è da dire che il babbo aveva un cognato, - marito di una sorella, morto poi in un incidente d’auto - che si chiamava Giacomelli.  I Giacomelli erano anarchici  con il fazzoletto rosso e nero, del movimento di Corridoni, interventisti e poi nel movimento fascista. Questo Giacomelli era un capo dei sindacati a Milano. Capirai. Io assomiglio di più alla mia mamma, il mondo è quello che è, cambiarlo è difficile, cambiare l’uomo è impossibile. Mia madre si chiamava Mazzina, il femminile di Mazzini, perché mio nonno era repubblicano, di cognome Pistolesi.  Bel nome e bella donna la mia mamma, non è mai stata in chiesa e non sapeva neanche l’Ave Maria. Era una repubblicana. Era di Bibbona, mare, e il babbo la prendeva in giro perché c’è la leggenda che gli abitanti di Bibbona hanno barattato la cupola della chiesa - di piombo - con i mattoni. Gli levarono il piombo e ci misero i mattoni. Mio padre diceva “Ma che vuoi? A Bibbona avete barattato il piombo con i mattoni!” Come a dire siete tonti a Bibbona». «Bianciardi mi dipinge come anarchico, ma ero più un bastian contrario. Però, la differenza tra comunismo e anarchia mi è venuta da mio padre. Ho letto le opere di Bakunin, Kropotkin. Lui leggeva Umanità nuova, arrivava anche L’adunata dei refrattari un giornale italo-americano che veniva da Boston cui mio padre era abbonato. Ho sì frequentato la Federazione anarchica ma poi ho seguito i consigli di un vecchio anarchico che mi faceva “ma dove vai, è una chiesa anche quella!”. Come a dire: non c’è scampo!».

 

Il paesaggio

Negli ultimi anni dipinge anche sul mare. Le sue Marine sono stesure liquide di colore. Ma è in origine il paesaggio dell’Alta Maremma la quota di natura cui attinge. Paesaggio come un corpo, come il corpo della donna sempre amata, Deanna. Orizzonte di natura venato di nostalgia, panorama collinare dipinto da lontano. Una natura attraversata da segni, scossa, minacciata, che Cavallini dipinge con rabbia, strappa all’oblio e alla estinzione. Della sua adolescenza a Riparbella dice: «Per arrivare al lavoro nella macchia si facevano dieci chilometri nel bosco al mattino e al ritorno alla sera. Camminavo e guardavo, mi incantavo di tutto, ero un guardone. Guardavo le cose, ero curioso di guardare. Guardavo la gente sino a importunarla. Mi affascinava la morfologia del territorio e delle persone, la testa, la gamba, la persona. La morfologia l’ho sempre avuta nella mano, disegnando, tracciando i tratti caratteristici di un volto, di un corpo. Da lì mi sono portato via il paesaggio che ho sempre avuto. L’aria, le lontananze, le lontananze che si ripetono, le colline, centinaia di chilometri, era l’universo quello! “Là c’è Pisa!” “Là c’è Livorno!” era una cosa fantastica!» A Riparbella ci torna, negli anni Novanta, per ragioni familiari e quasi per caso: «E allora sono andato a vedere tutto il paesaggio che conoscevo, dove avevo camminato con il mio babbo e i suoi compagni di lavoro, i boscaioli. Si andava la mattina, si camminava un’ora-due e ci si fermava. Ho rivisto questi posti, ho rivisto le zone della guerra dove tedeschi morti, americani morti dentro piccole trincee. E lavoravo da dio. Un paesaggio di natura se non lo vedo non lo dipingo, debbo avere un contatto. Pian piano ho capito cosa è il paesaggio ed è diventato quasi un mestiere ‘Cavallini pittore di paesaggio’» Ecco, fermiamoci sul paesaggio «I maestri del paesaggio sono Monet, Cézanne, ma io sento soprattutto Courbet. Sono andato a Parigi a vederlo. Fattori non mi ha mai interessato, a parte il quadro di una tamerice al vento sul mare che è scossa come in una tela di Soutine. Certo ho conosciuto i macchiaioli, Signorini, Cecioni e tanti altri. Il mio paesaggio è drammatico, il gesto mi aiuta molto e non ci torno sopra se la pennellata è bella. Ho poi costante una memoria dell’informale anche perché tutti i miei amici di Milano erano informali, Chighine, Carmassi. Il gesto è molto importante, avevo questa possibilità di essere un pittore più vero di quello che sono attraverso il paesaggio, ma non l’ho approfondito. Vedevo che la mia pittura poteva essere un’altra, anche se guardavo quel leccio, quell’albero, però il mio gesto poteva andare anche oltre, oltre la forma».

 

La gente dell’Appennino

In Alta Maremma c’erano contadini, ex-contadini, boscaioli, ex-boscaioli: «A macchia tagliata si facevano le cataste, il padrone ti pagava un tanto al metro. Mio padre quando faceva la catasta, faceva il pezzo giusto, un metro. Prendevi il metro, lo misuravi era un metro preciso. Io la facevo di 80 centimetri quando tagliavo l’albero perché pensavo che me ne veniva di più e questo mio zio, zio-nonno, di cui ho detto, la faceva di 110 centimetri perché era un galantuomo». Chi era questo zio-nonno? «Era fratello di mio nonno. Era stato in America, era tornato. Era un po’ lento di mente, ma un uomo in gamba, diceva sempre “sono un galantuomo”. Lavorava a Providence in una fabbrica dell’acqua, lo avvicinano dei cecinesi, dei piombinesi, che erano già entrati nella gang di qualche mafioso e gli dicono “ma cosa ci fai lì, vieni via da lì” e lui risponde “Sono un galantuomo”. Si chiamava Angiolino. Un operaio». Tornando al lavoro: «Il boscaiolo deve tagliare la macchia, poi c’è il carbonaio e fanno il carbone. Mio padre non lo faceva il carbone. Ho conosciuto dei carbonai, nei capanni. Fare il carbone è un po’ lunga, bisogna mettere tutti i legni in un certo modo, ci lasciavano un buco in cima, ci buttavano il fuoco, cominciavano a cuocere piano piano e coprivano questo affare tondo con le pellicce di terra, di muschio e il fumo non usciva da nessuna parte, quando era cotto, passavano due tre giorni, si raffreddava e venivano con i muli a caricare. La legna cuoceva per due-tre giorni».

 

Il taglio del bosco

“Ogni tronco lo spaccavano in pezzi da un metro e ne facevano poi cataste di due o tre metri steri. Il metro stero è la misura usata dai boscaioli (…) Il carbonaio è un mestiere difficile, che si trasmette di padre in figlio. Carbonai in Maremma non ce ne sono. Provengono tutti dall’Appennino pistoiese, dalla Garfagnana o da Montemignaio…La cottura della legna è un’operazione molto delicata, che richiede grande esperienza. Il carbonaio comincia col costruire ‘l’uovo di legna’, alto fino a tre metri, lo riveste in basso di zolle, sopra uno strato di foglie secche e terriccio…»

 

Piombino, il lavoro operaio

«Finita la guerra mio padre torna all’Italsider. C’era la fame. L’Italsider dove lavorava fa le rotaie, la Magona fa le lamiere e la latta. Alla Magona di Piombino ci lavoravo io. Ho cominciato a 17 anni, sono pieno di tagli perché mi infortunavo di continuo. La lamiera è quella doppia, la latta è quella che arriva sino ad essere carta come questa. Prima di diventare latta ce n’è di lavoro. Ci sono pezzi di ferro - i piattini - vengono messi in forno, quando sono quasi bianchi vengono passati sotto cilindri, uno le passa l’altro le riceve, di continuo, poi ripassati e piegati,  a forza di passarli e ripassarli sin che è ancora calda diventa una sfogliata enorme. Ho fatto tanti tipi di lavoro, tutti pericolosi, l’idraulico, l’addetto alle apparecchiature di acido che servono a pulire la latta... E disegnavo. La matita me la sono messa in mano da me. Lavoravo al forno normalizzatore - un serpente di trenta quaranta metri -, lì si imboccano fogli di lamiera in due, uno di qui e uno di là, grandi enormi,  pesanti, con le tenaglie. Il foglio va piano piano, viene temperato in questo forno ed esce pronto per essere spedito. A quei tempi si mandavano le lamiere in Giappone per le navi. Quando avevo il turno di notte passavo il tempo a disegnare il compagno che avevo davanti. Si schernivano ma li disegnavo lo stesso e li disegnavo su questo foglio di lamiera che passava lento. Il foglio arrivava  al fondo e il gesso che serve per segnare il tonnellaggio e che usavo per i disegni, diventava blu. La cosa interessante è che i disegni saranno arrivati in Giappone su questi fogli, c’erano anche dei nudi. Disegnavo le teste, i nudi e i giapponesi vedevano i miei disegni».

Lavora in fabbrica e frequenta i corsi di nudo alla Accademia delle Arti di Firenze con permessi non retribuiti. Nel 1952 lascia la fabbrica, si sposta a Firenze  e si iscrive all’Accademia. Disegna soprattutto: Masaccio, le statue del museo archeologico, un piede di Michelangelo dieci volte…“Prendi la penna biro e un po’ di carta e vai a disegnare” gli dicono i maestri. Vive con la liquidazione e il sussidio di disoccupazione. Vende qualche disegno sulla piazza di Milano e questo lo convince a spostarsi nella città lombarda.

 

Milano, il Giamaica

Luciano Bianciardi, ad un passo de La vita agra, scrive “Così i nostri amici erano sempre quelli, i fotografi del bar delle Antille, e qualche pittore, come il Cavallini di Piombino”. Da Firenze, all’inizio degli anni Cinquanta, Cavallini si sposta a Milano. «Per tre anni continuati. Furono molto importanti. C’era una piccola colonia di maremmani, gente della Toscana meridionale. C’era Luciano Bianciardi. Ci eravamo appena conosciuti, mi incontra al Giamaica - quello che lui chiama nel libro ‘bar delle Antille’ -, mi viene incontro dentro al caffè e mi fa: “Ma cosa ci fai in mezzo a tutti questi finocchi”. Mi aveva appena conosciuto e mi dice: “piombinese cosa ci fai lì”? Ha scritto delle belle pagine su di me e il mio lavoro. Ci siamo visti spesso poi è andato a lavorare da Feltrinelli e l’ho visto più raramente. Prendeva in giro Cassola, con cui era amico, ma erano un po’ rivali come scrittori e si rodeva per Il taglio del bosco, un bellissimo libro, a livello di Tozzi. Bianciardi faceva delle battute ma non cattive su Il taglio del bosco e La ragazza di Bube, le battute che si fanno tra toscani. Mi faceva l’interrogatorio sui boscaioli: “mi dici un po’ come è fatta la capanna, la rapazzola?”. Le rapazzole sono due piani per dormire vicino al fuoco. Si fa un fuoco forte fuori del capanno e si porta la brace nella capanna con la pala. Bianciardi voleva sapere queste cose da me che avevo fatto il boscaiolo insieme a mio padre per verificare se Cassola le aveva scritte bene».  Il bar Giamaica esiste ancora oggi, all’inizio di via Solferino, sull’angolo dello slargo che si apre davanti all’Accademia di Brera, la Pinacoteca e la Braidense. La vita agra, il romanzo sovversivo e sarcastico, o diario piuttosto, scritto nell’inverno 1961-62, del grossetano Bianciardi è la bandiera dei gruppi intellettuali di opposizione alle accellerazioni frenetiche, speculazioni e indebitamenti a rate del ‘miracolo economico’ italiano. Il miracolo che apre e chiude le cerniere sull’Italia tra gli ultimi anni Cinquanta e gli anni Sessanta delle riforme e nazionalizzazioni.  Vicino a La vita agra si può mettere il poemetto, il romanzo in versi di Elio Pagliarani La ragazza Carla. Testo di rifiuto, di rigetto, rappresentazione del disagio, delle miserie su cui si regge e cammina il miracolo economico italiano. Milano, Torino e Genova ne sono capitali. Il bar Giamaica, sui modelli esistenziali francesi, funziona come caffè degli artisti, degli oppositori, spazio dei bohèmiens, isola dei perdigiorno, luogo anche di veri dibattiti. Si forma qui, dopo le lezioni in aula di Aldo Carpi, il gruppo di Brera detto del ‘realismo esistenziale’, con protagonisti come Giuseppe Guerreschi e Tino Vaglieri.
 

Milano, la pittura

«Milano è un grande panorama umano, città piena di gente e di  solitudine. Soli in mezzo alla gente. La città ha questo di grande, la campagna non esiste: case e case, grattacieli. Dei paesaggi che ho fatto a Milano non ne ho più, ma ho molti disegni. La città la vedevo nera e gialla della luce della notte. Di notte camminavo e guardavo le case di Milano. Ero un consumatore di films francesi e americani polizieschi, noirs. Tipo Jean Gabin, Giungla d’asfalto. Ho conosciuto e letto Sherbanenko. Si è cominciato a leggerlo, attraverso Oreste Del Buono, un altro piombinese, elbano.  Però il noir l’ho sempre amato, perché la vita è nera. Per quanto alla figura, a parte autoritratti e ritratti di Céline, ho dipinto sempre Deanna e il corpo di Deanna. Ma in certe tele dipinte a Milano il corpo femminile è in un interno di stanza, disteso accanto a un oggetto. Sembra un assassinio, può sembrare la scena di un delitto, è un nudo disarmato di fronte al pericolo della vita. Quando qualcuno mi ha chiesto “Ma cosa ti garba di Milano?” ho risposto “Il paesaggio umano”. Camminavo da solo, ero capace di attraversare Milano sino al Mac Mahon, alla Ghisolfa, le periferie care a Testori. La Milano remota. Andavo sin là a piedi, alla Ghisolfa, alla Bovisa, a disegnare. Ho dipinto davvero una Milano nera, di strade, di case, di viottole. Ho dipinto Chinatown in Paolo Sarpi. Milano la gustavo, la capivo. Ho fatto tanti paesaggi la sera quando era buio e c’era la luce gialla».
 

La vita agra

“Un ubriaco muore per strada battendo la testa sul marciapiede e la gente che passa appena si scansa per non pestarlo (…) Quassù io ero venuto non per far crescere le medie e i bisogni, ma per distruggere il torracchione di vetro e cemento [della Montecatini], con tutte le umane relazioni che ci stanno dentro. Mi aveva mandato Tacconi Otello, oggi stradino per conto della provincia, con una missione ben precisa, tanto precisa che non occorse nemmeno dirmela (…) posso dirgli, guarda, Tacconi lassù mi hanno ridotto che a fatica mi difendo, lassù se caschi per terra nessuno ti raccatta, e la forza che ho mi basta appena per non farmi mangiare dalle formiche, e se riesco a campare, credi pure che la vita è agra, lassù”

 
La vita agra

«Un triestino che ha sposato poi la Marisa la figlia della Lina del Giamaica, comperava dei miei quadri, me li pagava 10-15.000 lire. Vivevo di pittura, anche di debiti, come dice Bianciardi che però, prima di andarmene, ho tutti pagati. Dalla Maria, che poi ha messo un ristorante sui navigli, non ci andavo più perché avevo anche lì debiti, al Fiorino ci avevo mangiato e non avevo pagato, Chighine, un grande pittore con lo studio in corso Garibaldi chiedeva “c’hai cento?”. Poi c’erano le Pirovini, due vecchie sorelle che facevano da mangiare agli artisti e nessuno pagava. Sono andato a mangiare al Bagutta una decina di volte in cambio di un disegno… Ero amico del poeta Camillo Pennati - leggeva Dylan Thomas in inglese - e non avevo da dormire. Non sapevo come fare con la mia roba messa qui e là, Pennati mi dice “Vieni a dormire da me”. Era pensione ma c’era un lettino in più, andavo lì ogni notte piano piano per non farlo sapere alla padrona. Dopo due o tre settimane, la signora ferma Camillo e gli dice, dandogli un fagotto di vestiti “Provi a vedere se vanno bene a quel suo amico, se ha bisogno” erano vestiti del suo figliolo morto qualche anno prima. Si era accorta di tutto, ma taceva. Quello che aveva cominciato come sarto ed era finito a fare il pittore è Domenico Bombino. Pennati gli fece fare una mostra da Aldrovandi alla libreria Einaudi di Milano. Siccome avevano venduto ma si tenevano i soldi, lui si è portato a casa dei libri. Ricordo in particolare un libro enorme di pitture di Santi. A un certo punto ho deciso di mettermi a lavorare, tornare in fabbrica. Al Giamaica veniva l’ingegnere Conconi - quello che ha inventato il duplex, il telefono duplex, una invenzione italiana. Conconi veniva per la Lucia, la modella amica di uno che traduceva i fumetti di Topolino per la Mondadori. Lo avvicino e gli dico: “Ingegnere ho bisogno di un lavoro, qualunque lavoro” e lui “Ma dove ha lavorato?” e io “Ho lavorato come metalmeccanico, agli altiforni, con il ferro con il fuoco, queste cose qui” mi dice “combinazione un amico italiano che torna dagli Stati Uniti sta mettendo una fabbrica di bande nere”, la banda nera è latta non ancora stagnata. Nella latta c’è lo stagno, in qualunque scatoletta “ha preso una fabbrica rottamata in America, la porta in Italia, è già in viaggio, è già arrivato qualche pezzo, la porta a Cassina de Pecchi. Gliene parlo subito” rispondo “I lavori attorno alla latta li ho fatti tutti”. Ero cinquanta chili di peso, ero proprio bisognoso. Dopo un po’ di giorni mi arriva la notizia di andare alla Motomeccanica di Milano per fare un po’ di avviamento al lavoro, imparare a mandare le macchine. Mi accolgono bene tutti. Mi danno anche la tessera per andare in mensa a mezzogiorno. Prima comincio a lavorare con il muletto, poi pian piano con trattori. Guadagnavo bene, le ore non le contavo, erano tante, erano straordinari e la notte era pagata bene. Piano piano ho pagato i debiti. Ma la fabbrica era piena di fumo, di acidi, di grassi, era contro la legge, con il soffitto basso, e mi sono riammalato. Ero già stato ammalato di tubercolosi e lì mi sono riammalato. È finita poi che i carabinieri gli hanno fatto chiudere questa fabbrica per la nocività delle lavorazioni e degli ambienti».  Lascia infine Milano. Ci tornerà nel 1973, con moglie e figli, titolare della cattedra di figura disegnata al Liceo Artistico di Busto Arsizio. Nel 1977 lascia l’insegnamento per dedicarsi alla pittura. Nel 1997 ritorna con la moglie a Riparbella e vi abita sino al 2004, anno in cui si trasferisce a Cecina, dove tutt’ora vive e lavora.

 
Deanna

«Ci siamo conosciuti sul lavoro, a Piombino. Il primo disegno di un nudo di Deanna è del 1959, anno in cui abbiamo cominciato a vederci. L’ho dipinta tutta la vita e continuo a dipingerla. I miei nudi sono un unico nudo, quello del corpo di Deanna. È stata una febbre, poi una consuetudine, poi una immedesimazione. Nonostante i problemi alla vista il suo corpo lo vedo. Mia moglie ha lavorato tutta la vita, a Riparbella ha tenuto anche l’orto, mi ha dato due figli, Giovanni e Giulia. Sono un pittore di figura. Ho guardato a Freud e a Bacon. Quando faccio il corpo di donna nuda distesa nell’interno dietro la sedia o l’oggetto, guardo a Bacon. I miei cappotti fumosi, sono i suoi, quello della donna che grida e si vede un po’ il seno…mi sono baconizzato, ho guardato alla sua opera. Potevo essere un altro pittore, forse più attuale, potevo fare altre cose».

Lo studio di Cecina è un ampio garage, poco lontano da via 4 Novembre dove Cavallini abita. Ci lavora ancora, nonostante gli anni e la vista molto debole. Su vari ripiani il cranio d’asino, il vaso di fiori, l’accetta del padre, la sacca, la giacca «dipingo le cose che conosco». Sulle rastrelliere quadri antichi e ultimi. Nello studio il divano per le pose di Deanna “sospetto che l’artrosi al ginocchio mi sia venuta per tutte le ore che sono rimasta ferma mentre mi dipingevi”. Lui ha sempre fatto una pittura di realtà, lui è rimasto in bilico tra formazione accademica e sguardo all’Ottocento e pulsioni oscure, liberazioni del gesto sulla tela, indagini sulla materia. Il corpo di Deanna è stato dipinto secondo i dettati scolastici e nella decomposizione materica di una forte figurazione informale. Così il paesaggio, certe tele e certi cicli hanno accenti di impressionismo toscano, ma una luce turneriana, uno spazio nuovo si apre nelle tele degli ultimi anni. E la stesura leggera e nervosa della pennellata ricorda De Pisis. Né mancano pagine di forte e abbondante materia. Cavallini è un autore molto deciso, molto forte nel disegno, nato, come dice, “con la matita in mano”. La sua vicenda artistica è la storia di un pittore tra Etruria e metropoli, Maremma e Città studi, taglio del bosco, fabbrica e atelier. Dentro un’Italia che muta a fondo ed esilia grandi parti di sé in un tempo remoto. Al cuore di un secolo. La sua storia andava raccontata.


Lunedì 09 Gennaio 2012